Trattato Onu

Il primo aprile 2013 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato il primo Trattato a vocazione universale sul commercio delle armi convenzionali (Arms Trade Treaty, ATT). La risoluzione è stata approvata a larga maggioranza (154 voti a favore). Fra i paesi astenuti (23) figurano Cina, Federazione russa e India, mentre la Repubblica democratica di Corea, Iran e Siria hanno espresso voto contrario. Questo risultato storico è arrivato al termine di un lungo negoziato avviato dalla stessa Assemblea generale nel 2006, e dopo il fallimento di due Conferenze diplomatiche tenutesi a New York, rispettivamente nel luglio 2012 e nel marzo 2013.

Il processo per la conclusione del Trattato è stato possibile grazie all’impegno delle organizzazioni non governative. Sul fronte politico-diplomatico appare decisivo il mutamento di prospettiva da parte di alcuni tra i maggiori produttori di armi, in particolare gli Stati Uniti che, dopo l’insediamento dell’amministrazione Obama, hanno iniziato a sostenere questo progetto.

Il Trattato ha finalità di controllo degli armamenti. Stabilisce alcuni standard comuni per il commercio internazionale delle armi convenzionali, anche al fine di prevenire e sradicare il loro traffico illecito, e rappresenta un bilanciamento tra gli interessi dei paesi produttori ed esportatori e le esigenze umanitarie e di sicurezza internazionale.

Troppo poco
Il Trattato ha un ambito di applicazione materiale piuttosto limitato in quanto si applica soltanto alle armi convenzionali incluse nell’apposito Registro delle Nazioni Unite (carri armati, veicoli da combattimento corazzati, sistemi di artiglieria di largo calibro, aeromobili ed elicotteri da combattimento, navi da guerra e sottomarini, missili e lanciatori terrestri), con l’apprezzabile aggiunta delle armi di piccolo calibro e leggere, secondo lo schema cosiddetto (7+1). Appare criticabile che munizioni, singole parti e componenti delle armi convenzionali non assemblate fuoriescano dal campo di applicazione del Trattato.

Gli Stati parti hanno però l’obbligo di introdurre e mantenere un sistema di controllo nazionale sulla loro esportazione in base ai parametri indicati dal Trattato. Suscita anche perplessità che il Trattato disciplini soltanto i trasferimenti di armi tra Stati, in particolare in considerazione dell’ingente flusso di armi di piccolo calibro e leggere verso gli attori non statali, in assenza di norme internazionali regolatrici adeguate. Al riguardo, il Trattato si limita ad indicare alcune misure minime per impedire la diversione delle armi verso il mercato nero.

Obblighi
In base al Trattato i trasferimenti internazionali, nel cui ambito si collocano le attività di esportazione, importazione, transito, trasbordo e intermediazione (il cui inserimento nel testo rappresenta un risultato importante) devono avvenire su base non discriminatoria e nel rispetto di alcuni criteri-guida, ispirati dal principio: no weapons for abuse.

In particolare, gli Stati hanno il dovere di non autorizzare alcun trasferimento di armi (incluse munizioni, singole parti e componenti) in violazione di obblighi derivanti da decisioni adottate dal Consiglio di sicurezza in base al Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, quali ad esempio gli embarghi di armi; oppure in contrasto ad obblighi convenzionali assunti tramite altri accordi internazionali sui trasferimenti o per la repressione del traffico delle armi convenzionali; infine, nel caso in cui abbiano la “consapevolezza”, al momento della concessione dell’autorizzazione, che le armi saranno utilizzate per commettere genocidi, crimini contro l’umanità e alcune fattispecie di crimini di guerra (tra cui figurano le infrazioni gravi alle Convenzioni di Ginevra del 1949, gli attacchi diretti contro i civili e i beni civili, e i crimini di guerra stabiliti dai trattati di cui gli Stati siano parti).

In tal modo, è affermato un principio di responsabilità per complicità (fornire aiuto o assistenza) dello Stato che autorizza il trasferimento in relazione ad un illecito commesso da un altro Stato. Quest’ultimo tipo di responsabilità è però difficile da accertare in quanto richiede l’intenzionalità dello Stato nel concorrere alle violazioni altrui, o quantomeno che le armi fornite contribuiscano materialmente all’atto illecito.

Il Trattato impone ulteriori obblighi agli Stati. Le autorizzazioni alle esportazioni non possono essere concesse nel caso sussista un rilevante rischio (overriding risk) che le armi contribuiscano a minacciare la pace e la sicurezza, ovvero possano essere utilizzate per commettere o facilitare violazioni gravi del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, oppure atti di terrorismo o reati di criminalità organizzata transnazionale in base ai trattati da essi stipulati.

La valutazione (risk assessment) spetta agli Stati, i quali nel prendere la decisione finale devono tenere in considerazione tutti i fattori rilevanti, incluse eventuali misure di mitigazione del rischio. Questo parametro appare maggiormente obiettivo rispetto al requisito della consapevolezza, in quanto non si basa sul concetto di complicità e stabilisce un dovere di indagine preventiva da parte dello Stato esportatore circa l’utilizzo finale che sarà fatto delle armi trasferite.

Controllo
Il Trattato non prevede un sistema di controllo istituzionalizzato, ma stabilisce una serie di misure di “trasparenza” quali: l’obbligo di designare le autorità statali preposte al sistema di controllo nazionale sui trasferimenti, nonché uno o più punti per consentire lo scambio di informazioni su aspetti che riguardano l’attuazione del Trattato; l’obbligo di tenuta dei registri nazionali relativi alle esportazioni e di inviare al Segretariato (istituito dal Trattato) rapporti annuali sui trasferimenti autorizzati.

Allo scopo di monitorare costantemente lo stato di attuazione del Trattato è infine indicata l’istituzione di una Conferenza degli Stati parti, priva però del potere di adottare misure sanzionatorie nei confronti degli Stati che non adempiano agli obblighi assunti. Fra l’altro, il Trattato non contempla alcuna procedura obbligatoria di soluzione delle controversie.

In conclusione, il testo finale del Trattato appare realisticamente il migliore dei risultati possibili. Sancisce il principio di trasparenza e contiene regole robuste per attenuare il rischio che i trasferimenti di armi siano funzionali alla commissione di gravi abusi dei diritti umani e ad alimentare i conflitti armati.

Le lacune e i compromessi che lo caratterizzano sono l’inevitabile conseguenza delle estenuanti trattative che hanno accompagnato la sua redazione. L’attenzione si sposta ora sulla campagna per l’entrata in vigore, in tempi ragionevoli, del Trattato, che si preannuncia tutt’altro che facile, essendo necessario raggiungere un numero minimo di cinquanta ratifiche.

Articolo tratto da Affari Internazionali Rivista Online di politica, strategia ed economia
http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=2290

Christian Ponti è ricercatore, dipartimento di studi internazionali, giuridici e storico-politici, Università degli studi di Milano.


APPROFONDIMENTO:

Ernestina Scalfari
Arms Trade Treaty: un successo parziale? 

tranarnsusa